Attore Intervista Regista, Autunno 1995

intervista pubblicata su NYI
autunno 1995

Gianni Amelio: Ehi, Federico, vent'anni dopo in terra straniera!
Così la sua calda voce mi accoglie al telefono. Ora, seduti in un comodo divano Frau continua lui:
- Gianni Amelio: Ma che ci fai a New York?
- Federico Pacifici: Mi sembra che in Italia non ci sia più posto per...
- G.A.: Ma non c'è più posto per nessuno, sono molto preoccupato per quelli che arrivano ora...
- F.P.: Ma tu con le tue qualità uno spazio te lo sei conquistato.
- G.A.: Ma io ho un'età...
Ci presentò vent'anni fa Lydia Biondi, attrice e comune amica. Io non ero nemmeno un attore, studiavo all'Accademia d'Arte Drammatica, avevo fatto pochi spettacoli di teatro, ma fortunatamente uno l'avevi visto, così per una serie di coincidenze ti feci carico del rischio di affidare a me il mio primo ruolo di protagonista. Tu eri un giovane regista conosciuto dagli addetti ai lavori. Eri già molto stimato per il tuo primo film "La Città del Sole". Da allora ad oggi con ogni film hai aggiunto un tassello, una conferma delle tue qualità fino al compimento di un percorso cinematografico e poetico con "Ladro di Bambini", il tuo film di più vasto successo, premiato a Cannes nel '92.
- F.P.: Che cosa è cambiato da allora?
- G.A.: Sono cambiate parecchie cose... scusa, apro una parentesi, sai che Lydia oltre ad essere un'attrice straordinaria che diventa di giorno in giorno più brava, ha fatto adesso con me in modo clamoroso due opere liriche il "Tabarro" di Puccini e "Pagliacci" di Leoncavallo, a Genova. Se sarà libera le chiederò di fare la mia assistente per il prossimo film.
- F.P.: Un processo inverso, molti fanno il teatro per arrivare al cinema.
- G.A.: Sai io amo gli attori, mi piace lavorare con loro. A teatro se non lavori con loro cosa fai? Vent' anni fa, quando lavorammo insieme, la televisione era praticamente l' unico produttore di cinema, chi non riusciva a fare cinema lavorava in televisione. La televisione non era ancora quella di oggi, c'era ancora lo sceneggiato non il telefilm, noi cercavamo di capire cosa potesse essere questo cinema che passava per la televisione. Per il film che abbiamo fatto insieme non ho usato le tre telecamere come si fa per la televisione, ne ho usata solo una forzandola come una macchina da presa. Infatti il film è stato proiettato e premiato a Locarno e a Hy&egraveres, due festival di cinema. Quel periodo era caratterizzato dalla confusione tra televisione e cinema.
- F.P.: C'è più chiarezza oggi?
- G.A.: Certo. Infatti oggi i giovani magari con pochissime lire fanno dei film, non vanno alla televisione per cominciare. La televisione usa una drammaturgia che è quella della telenovela, il cinema usa drammaturgie diverse.
- F.P.: Cosa mi dici delle due nomination all' Oscar?
- G.A.: Per "Ladro di Bambini" ci fu una grossa lotta con "Il Postino" nonostante avessimo lo stesso produttore. Ma la giuria non volle nominare un film italiano firmato da un regista inglese. Io poi le cose accattivanti non le so e non le voglio fare.
- F.P.: Per "A Porte Aperte"?
- G.A.: Fu una grande gioia. Lo stesso Leonardo Sciascia, dal cui romanzo avevo tratto il film, disse che sarebbe stato contento se lo avessero proiettato in America dove il problema della pena di morte è un problema reale. Noi, in Italia per fortuna l'abbiamo superato.
- F.P.: In un mio articolo ho paragonato la tua poetica a quella di Pasolini.
- G.A.: Penso ci sia un fatto morale nel fare o non fare una cosa. L' idea di fare il cinema mettendosi in gioco e mettendo in gioco elementi che sono diversi da quelli delle categorie di questo mestiere. E' difficile che in America si riesca ad andare al di là di un cinema inteso come intrattenimento. Vedo che anche i grandi film americani difronte ai quali tutti ci leviamo il cappello, nascono comunque da un concetto che è diverso da quello europeo.
- F.P.: Ti dispiace questo paragone?
- G.A.: No, tutt'altro, ma i paragoni li devono fare gli altri non io. I miei film forse nascono da esigenze diverse.
- F.P.: Che storie racconti?
- G.A.: Anche quando tento di non raccontare cose autobiografiche finisco sempre per raccontare problemi miei seppur sotto mentite spoglie, attraverso personaggi che con me non hanno nulla a che fare. Non riesco mai a uscire da un sentimento che mi è suggerito dalla mia vicenda privata. Voglio sempre costruire delle storie, dei personaggi.
- F.P.: Hai avuto concrete proposte da Hollywood?
- G.A.: Sì, delle proposte da sviluppare in Europa, quindi corrette, ma non me ne sono voluto occupare perché non mi piacevano i progetti.
- F.P.: Ma se Hollywood finanziasse i tuoi film in Italia?
- G.A.: Sai, non è che Hollywood finanzi in modo mecenatesco.
- F.P.: Sei qui per presentare al New York film festival il tuo ultimo film "Lamerica". Che reazioni ti aspetti o desidereresti dal pubblico americano, popolo di emigranti?
- GA.: No, mi aspetto dal pubblico in generale delle reazioni. Io il film non l'ho fatto neanche per gli albanesi, ma per gli italiani. Ritengo che oggi ci sia una memoria corta, una certa crisi della memoria. C'è una cosa molto crudele, sgradevole che è la nascita di una certa arroganza di un cinismo che non è la parte più bella di noi italiani. Siamo un popolo che ne ha passate di cotte e di crude nella sua storia. C'è un mito del potere da utilizzare contro chi non ce l'ha. Dagli anni ottanta è uscita una generazione che magari con nomi cambiati è al potere ed è..., ecco, smemorata. Il film l'ho fatto per questa Italia che nel film è rappresentata da quei due mascalzoni che in un momento drammatico per l'Albania, ci vanno solo come profittatori, per fare un affare che deve fruttare un miliardo a testa da rubare allo stato. Come succede ed è successo in questi anni. Il film è rivolto soprattutto agli italiani. Penso che gli italiani d'America anche di seconda generazione, ricordino forse meglio da dove vengono.
- F.P.: Andare verso l'Italia pensando di trovare Lamerica è come andare in America e non trovarla?
- G.A.: L'Italia ha dato agli Albanesi, attraverso la televisione, un'immagine di sé traditrice e matrigna. I miei familiari mi dicevano di pensare all'America del nord come ad una madre che accogliendoti ti avrebbe ricompensato degli sforzi e, all'America del sud, come alla matrigna che ti sfruttava. Mio padre, mio zio, mio fratello, emigrati in America del sud non sono mai riusciti ad affermarsi, quella parte della famiglia emigrata in America del nord invece ce l'ha fatta. L'America nel bene e nel male dà questo senso di libertà, è la terra dove tutti i miracoli sono possibili. Forse in nessun altra parte del mondo ciò è possibile. Ho titolato il film Lamerica, riducendo tutto ad una parola sola che può essere: sogno, utopia, comunque speranza.
- F.P.: So che in questi giorni sei stato nel Bronx, a Brooklyn, alla statua della libertà, a Ellis Island, a Chinatown... stai cercando un set a New York per il tuo prossimo film?
- G.A.: No, no no, non voglio fare un film qui, lo farei solo se fosse una storia di italiani, di italo-americani o comunque di qualcuno che esprima una cultura che io conosca. Volevo conoscere il Bronx che si vede solo nei film ed è descritto come un inferno. Invece ho visto che non è solo inferno. Le case hanno delle architetture anche molto piacevoli, quasi europee...
- F.P.: Ma molte di quelle case sono murate o sprangate...
- G.A.: Sì, sì come in Albania dove la guerra tra poveri è forse la peggiore.
- F.P.: Come scegli i tuoi collaboratori, che atmosfera ti piace creare con loro?
- G.A.: Raramente lascio soli i miei collaboratori. Mi assumo più responsabilità di quelle che dovrei. Come sai, in Italia il livello tecnico è di prim'ordine ed io voglio sempre e comunque una complicità con tutti, ma sono io il responsabile di quello che fanno. E' importante che ci si incontri a livello di carattere. Non esiste professionismo senza la comunicazione.
- F.P.: Tonino Nardi, il tuo primo direttore della fotografia, scomparso prematuramente, vuoi ricordarlo?
- G.A.: Quello che ti fa preferire una persona ad un'altra è ciò che lui o lei è come essere umano. In questo senso il mio rapporto con il mio operatore di sempre, che adesso non c'è più, nasceva da una specie di bizzarra complicità fatta anche di liti spaventose, di gelosie, ma al di là di qualsiasi scontro che potevamo avere sul lavoro, poi la pensavamo allo stesso modo, avevamo la stessa base di carattere.
- F.P.: Con lui hai girato quella scena indimenticabile del tuo primo film, dei cavalieri intorno al pozzo, senza i cavalieri che non avevate. Con solo un paio di asini creaste delle ombre...
- G.A.: Certo preferirei aver avuto i cavalieri. Io non mitizzo la povertà. Ma i mezzi economici bisogna poi saperli utilizzare, non si deve smettere di pensare.
- F.P.: Gli attori?
- G.A.: Fino a qualche tempo fa erano assolutamente schiacciati da quell'affermazione assolutamente italiana che chiunque avesse una "faccia" potesse fare l'attore, tanto poi l'avrebbero doppiato. Ora per fortuna l'85% dei film italiani è in presa diretta. Io non ce l'ho con gli attori, io non voglio rimanere prigioniero delle star.
- F.P.: Con ogni tuo film hai creato un attore. Tu conosci il segreto di dirigerli. Come l'hai scoperto e cosa è cambiato durante l'evolversi della tua carriera?
- G.A.: Da allora sono sicuramente migliorato di carattere. Una risposta l'ha data Lo Verso al quale era stato chiesto anche in modo brutale perché solo con me fosse così bravo e lui ha detto: perché Gianni non smette di girare fino a che io non ho dato il meglio di me.
- F.P.: Ma questo può essere un problema produttivo.
- G.A.: Certamente lo è, ma basta provare prima.
- F.P.: Vuoi che gli attori siano vergini e per questo preferisci i non professionisti, ed anche per gelosia perché non vuoi che siano poi più bravi con un altro regista. Ma un attore, se per necessità di trovare lavoro è una puttana, per definizione dovrebbe essere vergine, disponibile e malleabile. Come un violino che suona bene o male secondo chi lo suona.
- G.A.: E' vero, ed è vero che non tutti possono fare gli attori come qualcuno crede. E' altrettanto vero che devi scegliere quello giusto per ottenere il personaggio che vuoi. E se anche l' attore ha alcune o tutte le caratteristiche del personaggio, per recitarlo deve fare comunque uno sforzo interpretativo. Il regista comincia a dirigere l' attore da quando comincia a pensare a lui per quella parte. E se sbagli la scelta, non c'è rimedio, esistono episodi clamorosi.
- F.P.: Nessuno dei tuoi attori è stato più bravo con altri registi. C'è del demoniaco in questo?
- G.A.: No, non c'è del demoniaco c'è una cura particolare che ho per loro. Se l'attore già pensa come il personaggio ti trovi la strada un po' spianata. Volonté era già disponibile a pensare come il giudice di "A Porte Aperte". Ci sono per esempio, oggi in Italia degli attori che fiutando la politica si stanno buttando a destra e che con arroganza ti si presentano dicendo che sono disponibili ad interpretare qualsiasi personaggio, ma poi con loro è veramente duro averci un rapporto, è duro lavorarci.
- F.P.: Ricordo in particolare in "Colpire al Cuore" un gesto di Fausto Rossi, quel modo come di scacciare le mosche...
- G.A.: Quello però è mio e mi fa piacere che tu l'abbia ricordato. L'abbiamo studiato bene. Fausto ha un istinto straordinario. E' però un gesto che non mi è venuto in mente in modo astratto, l'ho un po' rubato all' attore e fatto diventare del personaggio.
- F.P.: La tua capacità di dirigere è impressionante anche quando si tratta di giovanissimi come i bambini del "Ladro" o il protagonista del "Piccolo Archimede", che differenza c'è tra dirigere un attore professionista e un bambino?
- G.A.: Guai se porti i bambini in un teatro di posa, a Cinecittà, cominciano a fare i pupazzi. L'atmosfera della finzione è così forte che cominciano a fare i pupazzetti. Invece gli ambienti reali li portano a reagire in modo naturale.
- F.P.: Tu riesci a stabilire un rapporto di fiducia con l'attore adulto o bambino che sia.
- G.A.: Certo, perché io mi assumo delle responsabilità, non capisco quei miei colleghi che dicono: a me gli attori non interessano . Ed esauriscono tutta la loro regia nella macchina da presa, nei carrelli... A me, sinceramente tutte le altre cose mi annoiano. A me interessano gli attori.
- F.P.: Gli studi filosofici, scientifici e matematici sono presenti in molti tuoi film ("La Città del Sole", "Il piccolo Archimede", "I Ragazzi di via Panisperna"), perché tanta attenzione alla scienza?
- G.A.: C'è anche un' altra cosa, ci sono sempre due protagonisti uno che sa e un altro che ancora non sa. C'è sempre uno scambio che non è solo di affetti come in altri film con un padre e un figlio. Ma è uno scambio di culture. Quasi sempre ho raccontato di maestro e di allievo o di generazioni differenti. Come se l'una dovesse passare il testimone della staffetta all'altra e quest'ultima cercasse di porsi in modo problematico o semplice, etc... verso l' adulto.
- F.P.: Hai trasformato un fisico in uno sceneggiatore, Alessandro Sermoneta (Da "I Ragazzi di via Panisperna" in poi). Te ne senti colpevole o contento?
- G.A.: E' diventato bravo.
- F.P.: Ha avuto un grande maestro.
- G.A.: L'ho trovato già bravo, lui doveva essere il mio consulente di fisica, poi invece vedevo che inventava anche una situazione, una battuta...Penso che ci siamo incontrati in un momento in cui aveva delle curiosità, è stato più ricettivo che se avesse cominciato più tardi...Sono stato molto duro con lui.
- F.P.: Ogni tuo film ha toccato una zona segreta della mia coscienza, ho riso, talvolta con amarezza, ho pianto, anche tanto, sempre ho portato via un bisogno di rivedere le mie personali posizioni, i miei pensieri... Tu sei stato più volte membro e presidente di giurie di concorsi cinematografici. Quali sono gli elementi di un film che determinano il tuo giudizio?
- G.A.: E' difficile giudicare ed io non voglio giudicare. Ci sono due momenti negli ultimi due film che mi hanno commosso mentre giravo. Nel "Ladro di Bambini" l'addio tra il carabiniere e il bambino: sembrava che i due attori si salutassero davvero... c'è stato uno strano momento di verità... e nel "Lamerica" il momento finale, quei primi piani so perché li ho girati, erano le ultime cose che giravo ed era un modo di portarmi via i loro ritratti, i ritratti di amici di cui conosco l'esistenza, la vita.
- F.P.: Quando sei nelle giurie?
- G.A.: Sono preda delle emozioni, non voglio essere freddo quando giudico, perché non sono un critico, non devo farlo di mestiere, non mi piace giudicare. I film che mi commuovono sono i film giusti in quel momento. Sono stato in giuria a Venezia e a Cannes, tutte e due le volte ho voluto premiare - poi sono stati quelli i film che hanno vinto - due film che mi hanno fatto piangere.
- F.P.: Dai tuoi film appari estremamente generoso, dall'incontro di ieri anche amaro e cinico, forse anche cattivo. Oggi, finalmente, ti vedo come ti conoscevo. Come ti consideri tu?
- G.A.: Io non mi sento né cattivo né cinico, sono abbastanza preciso. Se sono cattivo lo sono con me stesso prima che con gli altri. Ecco, io credo di essere non retorico ed invece ci sono tutta una serie di rituali in cui la retorica deve essere sfoggiata...
- F.P.: C'è qualcosa che non hai mai avuto occasione di dire?
- G.A.: Io credo che uno le domande e le risposte se le dia con i film. Durante un'intervista puoi dire le bugie più grandi, ma con il film sei lì tu sullo schermo, non puoi mentire.
- F.P.: Grazie.

A cura di Federico Pacifici*

* Ha interpretato il protagonista di "La Morte al Lavoro" di Gianni Amelio nel 1977.
Il film, prodotto dalla RAI e interamente girato in studio, è stato premiato a Locarno e Hyères nel '78.


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