Gianni Amelio: Ehi, Federico, vent'anni dopo
in terra straniera!
Così la sua calda voce mi accoglie al
telefono. Ora, seduti in un comodo divano Frau continua lui:
- Gianni Amelio: Ma che ci fai a New York?
- Federico Pacifici: Mi sembra che in
Italia non ci sia più posto per...
- G.A.: Ma non c'è più posto
per nessuno, sono molto preoccupato per quelli che arrivano ora...
- F.P.: Ma tu con le tue qualità
uno spazio te lo sei conquistato.
- G.A.: Ma io ho un'età...
Ci presentò vent'anni fa Lydia Biondi,
attrice e comune amica. Io non ero nemmeno un attore, studiavo all'Accademia
d'Arte Drammatica, avevo fatto pochi spettacoli di teatro, ma fortunatamente
uno l'avevi visto, così per una serie di coincidenze ti feci carico
del rischio di affidare a me il mio primo ruolo di protagonista. Tu eri
un giovane regista conosciuto dagli addetti ai lavori. Eri già molto
stimato per il tuo primo film "La Città del Sole". Da allora ad
oggi con ogni film hai aggiunto un tassello, una conferma delle tue qualità
fino al compimento di un percorso cinematografico e poetico con "Ladro
di Bambini", il tuo film di più vasto successo, premiato a Cannes
nel '92.
- F.P.: Che cosa è cambiato da
allora?
- G.A.: Sono cambiate parecchie cose...
scusa, apro una parentesi, sai che Lydia oltre ad essere un'attrice straordinaria
che diventa di giorno in giorno più brava, ha fatto adesso con me
in modo clamoroso due opere liriche il "Tabarro" di Puccini e "Pagliacci"
di Leoncavallo, a Genova. Se sarà libera le chiederò di fare
la mia assistente per il prossimo film.
- F.P.: Un processo inverso, molti fanno
il teatro per arrivare al cinema.
- G.A.: Sai io amo gli attori, mi piace
lavorare con loro. A teatro se non lavori con loro cosa fai? Vent' anni
fa, quando lavorammo insieme, la televisione era praticamente l' unico
produttore di cinema, chi non riusciva a fare cinema lavorava in televisione.
La televisione non era ancora quella di oggi, c'era ancora lo sceneggiato
non il telefilm, noi cercavamo di capire cosa potesse essere questo cinema
che passava per la televisione. Per il film che abbiamo fatto insieme non
ho usato le tre telecamere come si fa per la televisione, ne ho usata solo
una forzandola come una macchina da presa. Infatti il film è stato
proiettato e premiato a Locarno e a Hyères, due festival di cinema.
Quel periodo era caratterizzato dalla confusione tra televisione e cinema.
- F.P.: C'è più chiarezza
oggi?
- G.A.: Certo. Infatti oggi i giovani
magari con pochissime lire fanno dei film, non vanno alla televisione per
cominciare. La televisione usa una drammaturgia che è quella della
telenovela, il cinema usa drammaturgie diverse.
- F.P.: Cosa mi dici delle due nomination
all' Oscar?
- G.A.: Per "Ladro di Bambini" ci fu una
grossa lotta con "Il Postino" nonostante avessimo lo stesso produttore.
Ma la giuria non volle nominare un film italiano firmato da un regista
inglese. Io poi le cose accattivanti non le so e non le voglio fare.
- F.P.: Per "A Porte Aperte"?
- G.A.: Fu una grande gioia. Lo stesso
Leonardo Sciascia, dal cui romanzo avevo tratto il film, disse che sarebbe
stato contento se lo avessero proiettato in America dove il problema della
pena di morte è un problema reale. Noi, in Italia per fortuna l'abbiamo
superato.
- F.P.: In un mio articolo ho paragonato
la tua poetica a quella di Pasolini.
- G.A.: Penso ci sia un fatto morale nel
fare o non fare una cosa. L' idea di fare il cinema mettendosi in gioco
e mettendo in gioco elementi che sono diversi da quelli delle categorie
di questo mestiere. E' difficile che in America si riesca ad andare al
di là di un cinema inteso come intrattenimento. Vedo che anche i
grandi film americani difronte ai quali tutti ci leviamo il cappello, nascono
comunque da un concetto che è diverso da quello europeo.
- F.P.: Ti dispiace questo paragone?
- G.A.: No, tutt'altro, ma i paragoni
li devono fare gli altri non io. I miei film forse nascono da esigenze
diverse.
- F.P.: Che storie racconti?
- G.A.: Anche quando tento di non raccontare
cose autobiografiche finisco sempre per raccontare problemi miei seppur
sotto mentite spoglie, attraverso personaggi che con me non hanno nulla
a che fare. Non riesco mai a uscire da un sentimento che mi è suggerito
dalla mia vicenda privata. Voglio sempre costruire delle storie, dei personaggi.
- F.P.: Hai avuto concrete proposte da
Hollywood?
- G.A.: Sì, delle proposte da sviluppare
in Europa, quindi corrette, ma non me ne sono voluto occupare perché
non mi piacevano i progetti.
- F.P.: Ma se Hollywood finanziasse i
tuoi film in Italia?
- G.A.: Sai, non è che Hollywood
finanzi in modo mecenatesco.
- F.P.: Sei qui per presentare al New
York film festival il tuo ultimo film "Lamerica". Che reazioni ti aspetti
o desidereresti dal pubblico americano, popolo di emigranti?
- GA.: No, mi aspetto dal pubblico in
generale delle reazioni. Io il film non l'ho fatto neanche per gli albanesi,
ma per gli italiani. Ritengo che oggi ci sia una memoria corta, una certa
crisi della memoria. C'è una cosa molto crudele, sgradevole che
è la nascita di una certa arroganza di un cinismo che non è
la parte più bella di noi italiani. Siamo un popolo che ne ha passate
di cotte e di crude nella sua storia. C'è un mito del potere da
utilizzare contro chi non ce l'ha. Dagli anni ottanta è uscita una
generazione che magari con nomi cambiati è al potere ed è...,
ecco, smemorata. Il film l'ho fatto per questa Italia che nel film è
rappresentata da quei due mascalzoni che in un momento drammatico per l'Albania,
ci vanno solo come profittatori, per fare un affare che deve fruttare un
miliardo a testa da rubare allo stato. Come succede ed è successo
in questi anni. Il film è rivolto soprattutto agli italiani. Penso
che gli italiani d'America anche di seconda generazione, ricordino forse
meglio da dove vengono.
- F.P.: Andare verso l'Italia pensando
di trovare Lamerica è come andare in America e non trovarla?
- G.A.: L'Italia ha dato agli Albanesi,
attraverso la televisione, un'immagine di sé traditrice e matrigna.
I miei familiari mi dicevano di pensare all'America del nord come ad una
madre che accogliendoti ti avrebbe ricompensato degli sforzi e, all'America
del sud, come alla matrigna che ti sfruttava. Mio padre, mio zio, mio fratello,
emigrati in America del sud non sono mai riusciti ad affermarsi, quella
parte della famiglia emigrata in America del nord invece ce l'ha fatta.
L'America nel bene e nel male dà questo senso di libertà,
è la terra dove tutti i miracoli sono possibili. Forse in nessun
altra parte del mondo ciò è possibile. Ho titolato il film
Lamerica, riducendo tutto ad una parola sola che può essere: sogno,
utopia, comunque speranza.
- F.P.: So che in questi giorni sei stato
nel Bronx, a Brooklyn, alla statua della libertà, a Ellis Island,
a Chinatown... stai cercando un set a New York per il tuo prossimo film?
- G.A.: No, no no, non voglio fare un
film qui, lo farei solo se fosse una storia di italiani, di italo-americani
o comunque di qualcuno che esprima una cultura che io conosca. Volevo conoscere
il Bronx che si vede solo nei film ed è descritto come un inferno.
Invece ho visto che non è solo inferno. Le case hanno delle architetture
anche molto piacevoli, quasi europee...
- F.P.: Ma molte di quelle case sono murate
o sprangate...
- G.A.: Sì, sì come in Albania
dove la guerra tra poveri è forse la peggiore.
- F.P.: Come scegli i tuoi collaboratori,
che atmosfera ti piace creare con loro?
- G.A.: Raramente lascio soli i miei collaboratori.
Mi assumo più responsabilità di quelle che dovrei. Come sai,
in Italia il livello tecnico è di prim'ordine ed io voglio sempre
e comunque una complicità con tutti, ma sono io il responsabile
di quello che fanno. E' importante che ci si incontri a livello di carattere.
Non esiste professionismo senza la comunicazione.
- F.P.: Tonino Nardi, il tuo primo direttore
della fotografia, scomparso prematuramente, vuoi ricordarlo?
- G.A.: Quello che ti fa preferire una
persona ad un'altra è ciò che lui o lei è come essere
umano. In questo senso il mio rapporto con il mio operatore di sempre,
che adesso non c'è più, nasceva da una specie di bizzarra
complicità fatta anche di liti spaventose, di gelosie, ma al di
là di qualsiasi scontro che potevamo avere sul lavoro, poi la pensavamo
allo stesso modo, avevamo la stessa base di carattere.
- F.P.: Con lui hai girato quella scena
indimenticabile del tuo primo film, dei cavalieri intorno al pozzo, senza
i cavalieri che non avevate. Con solo un paio di asini creaste delle ombre...
- G.A.: Certo preferirei aver avuto i
cavalieri. Io non mitizzo la povertà. Ma i mezzi economici bisogna
poi saperli utilizzare, non si deve smettere di pensare.
- F.P.: Gli attori?
- G.A.: Fino a qualche tempo fa erano
assolutamente schiacciati da quell'affermazione assolutamente italiana
che chiunque avesse una "faccia" potesse fare l'attore, tanto poi l'avrebbero
doppiato. Ora per fortuna l'85% dei film italiani è in presa diretta.
Io non ce l'ho con gli attori, io non voglio rimanere prigioniero delle
star.
- F.P.: Con ogni tuo film hai creato un
attore. Tu conosci il segreto di dirigerli. Come l'hai scoperto e cosa
è cambiato durante l'evolversi della tua carriera?
- G.A.: Da allora sono sicuramente migliorato
di carattere. Una risposta l'ha data Lo Verso al quale era stato chiesto
anche in modo brutale perché solo con me fosse così bravo
e lui ha detto: perché Gianni non smette di girare fino a che io
non ho dato il meglio di me.
- F.P.: Ma questo può essere un
problema produttivo.
- G.A.: Certamente lo è, ma basta
provare prima.
- F.P.: Vuoi che gli attori siano vergini
e per questo preferisci i non professionisti, ed anche per gelosia perché
non vuoi che siano poi più bravi con un altro regista. Ma un attore,
se per necessità di trovare lavoro è una puttana, per definizione
dovrebbe essere vergine, disponibile e malleabile. Come un violino che
suona bene o male secondo chi lo suona.
- G.A.: E' vero, ed è vero che
non tutti possono fare gli attori come qualcuno crede. E' altrettanto vero
che devi scegliere quello giusto per ottenere il personaggio che vuoi.
E se anche l' attore ha alcune o tutte le caratteristiche del personaggio,
per recitarlo deve fare comunque uno sforzo interpretativo. Il regista
comincia a dirigere l' attore da quando comincia a pensare a lui per quella
parte. E se sbagli la scelta, non c'è rimedio, esistono episodi
clamorosi.
- F.P.: Nessuno dei tuoi attori è
stato più bravo con altri registi. C'è del demoniaco in questo?
- G.A.: No, non c'è del demoniaco
c'è una cura particolare che ho per loro. Se l'attore già
pensa come il personaggio ti trovi la strada un po' spianata. Volonté
era già disponibile a pensare come il giudice di "A Porte Aperte".
Ci sono per esempio, oggi in Italia degli attori che fiutando la politica
si stanno buttando a destra e che con arroganza ti si presentano dicendo
che sono disponibili ad interpretare qualsiasi personaggio, ma poi con
loro è veramente duro averci un rapporto, è duro lavorarci.
- F.P.: Ricordo in particolare in "Colpire
al Cuore" un gesto di Fausto Rossi, quel modo come di scacciare le mosche...
- G.A.: Quello però è mio
e mi fa piacere che tu l'abbia ricordato. L'abbiamo studiato bene. Fausto
ha un istinto straordinario. E' però un gesto che non mi è
venuto in mente in modo astratto, l'ho un po' rubato all' attore e fatto
diventare del personaggio.
- F.P.: La tua capacità di dirigere
è impressionante anche quando si tratta di giovanissimi come i bambini
del "Ladro" o il protagonista del "Piccolo Archimede", che differenza c'è
tra dirigere un attore professionista e un bambino?
- G.A.: Guai se porti i bambini in un
teatro di posa, a Cinecittà, cominciano a fare i pupazzi. L'atmosfera
della finzione è così forte che cominciano a fare i pupazzetti.
Invece gli ambienti reali li portano a reagire in modo naturale.
- F.P.: Tu riesci a stabilire un rapporto
di fiducia con l'attore adulto o bambino che sia.
- G.A.: Certo, perché io mi assumo
delle responsabilità, non capisco quei miei colleghi che dicono:
a me gli attori non interessano . Ed esauriscono tutta la loro regia nella
macchina da presa, nei carrelli... A me, sinceramente tutte le altre cose
mi annoiano. A me interessano gli attori.
- F.P.: Gli studi filosofici, scientifici
e matematici sono presenti in molti tuoi film ("La Città del Sole",
"Il piccolo Archimede", "I Ragazzi di via Panisperna"), perché tanta
attenzione alla scienza?
- G.A.: C'è anche un' altra cosa,
ci sono sempre due protagonisti uno che sa e un altro che ancora non sa.
C'è sempre uno scambio che non è solo di affetti come in
altri film con un padre e un figlio. Ma è uno scambio di culture.
Quasi sempre ho raccontato di maestro e di allievo o di generazioni differenti.
Come se l'una dovesse passare il testimone della staffetta all'altra e
quest'ultima cercasse di porsi in modo problematico o semplice, etc...
verso l' adulto.
- F.P.: Hai trasformato un fisico in uno
sceneggiatore, Alessandro Sermoneta (Da "I Ragazzi di via Panisperna" in
poi). Te ne senti colpevole o contento?
- G.A.: E' diventato bravo.
- F.P.: Ha avuto un grande maestro.
- G.A.: L'ho trovato già bravo,
lui doveva essere il mio consulente di fisica, poi invece vedevo che inventava
anche una situazione, una battuta...Penso che ci siamo incontrati in un
momento in cui aveva delle curiosità, è stato più
ricettivo che se avesse cominciato più tardi...Sono stato molto
duro con lui.
- F.P.: Ogni tuo film ha toccato una zona
segreta della mia coscienza, ho riso, talvolta con amarezza, ho pianto,
anche tanto, sempre ho portato via un bisogno di rivedere le mie personali
posizioni, i miei pensieri... Tu sei stato più volte membro e presidente
di giurie di concorsi cinematografici. Quali sono gli elementi di un film
che determinano il tuo giudizio?
- G.A.: E' difficile giudicare ed io non
voglio giudicare. Ci sono due momenti negli ultimi due film che mi hanno
commosso mentre giravo. Nel "Ladro di Bambini" l'addio tra il carabiniere
e il bambino: sembrava che i due attori si salutassero davvero... c'è
stato uno strano momento di verità... e nel "Lamerica" il momento
finale, quei primi piani so perché li ho girati, erano le ultime
cose che giravo ed era un modo di portarmi via i loro ritratti, i ritratti
di amici di cui conosco l'esistenza, la vita.
- F.P.: Quando sei nelle giurie?
- G.A.: Sono preda delle emozioni, non
voglio essere freddo quando giudico, perché non sono un critico,
non devo farlo di mestiere, non mi piace giudicare. I film che mi commuovono
sono i film giusti in quel momento. Sono stato in giuria a Venezia e a
Cannes, tutte e due le volte ho voluto premiare - poi sono stati quelli
i film che hanno vinto - due film che mi hanno fatto piangere.
- F.P.: Dai tuoi film appari estremamente
generoso, dall'incontro di ieri anche amaro e cinico, forse anche cattivo.
Oggi, finalmente, ti vedo come ti conoscevo. Come ti consideri tu?
- G.A.: Io non mi sento né cattivo
né cinico, sono abbastanza preciso. Se sono cattivo lo sono con
me stesso prima che con gli altri. Ecco, io credo di essere non retorico
ed invece ci sono tutta una serie di rituali in cui la retorica deve essere
sfoggiata...
- F.P.: C'è qualcosa che non hai
mai avuto occasione di dire?
- G.A.: Io credo che uno le domande e
le risposte se le dia con i film. Durante un'intervista puoi dire le bugie
più grandi, ma con il film sei lì tu sullo schermo, non puoi
mentire.
- F.P.: Grazie.
A cura di Federico Pacifici*
* Ha interpretato il protagonista di "La Morte
al Lavoro" di Gianni Amelio nel 1977.
Il film, prodotto dalla RAI e interamente girato
in studio, è stato premiato a Locarno e Hyères nel '78.
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